Le mille e una notte di Ciro Palumbo

“ Chiaro che può essere soltanto un sogno, nella vita reale non s’è mai visto un viaggio così.”
da: J. Saramago, ‘Il racconto dell’isola sconosciuta’

Il sogno a cui fa riferimento Ciro Palumbo ha origine nelle notti dei tempi, nelle mille ed una notte in cui Sherazade, con la magia dei suoi racconti, ottiene salva la vita affabulando con la prospettiva di un’esistenza immaginaria il suo sposo, il re Sahrigar, che la vuole morta.
Sherazade prende il tiranno per mano e lo conduce in un mondo di pura invenzione, fatto di fantasie e seduzioni, timori ed incantesimi, intrighi ed atti eroici, offrendogli in dono una sorte alternativa partorita dall’immaginazione, un destino fantastico in grado di sedurre il sovrano feroce e di cambiarne la natura penetrandone la profondità dell’anima.
Allo stesso modo, Palumbo conduce per mano lo spettatore in un mondo coerente con la tradizione metafisica di cui si nutre, popolato di oggetti simbolici, spazi desertici, scenografie enigmatiche, suggestioni che comunicano un senso di inquietudine. Pure, non è l’evidenza iconografica a comunicare ad occhi desiderosi di significato, bensì l’atmosfera percepita da chi osserva, che è insieme tensione ed attesa. Non si tratta di una sosta statica, immobile in un tempo sospeso: per Ciro Palumbo l’attesa è ricerca, e ricerca è un viaggio per cui
si parte sapendo che la meta altro non è se non il viaggio stesso.

“Voi che ne pensate, Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo
da noi.”
da: J. Saramago, ‘Il racconto dell’isola sconosciuta”

Palumbo compie il viaggio, che è un salto verso l’inconscio, tramite la pittura, che traghetta pittore e spettatore in una surreale atmosfera onirica popolata di oggetti reali, in una dimensione interiore inconscia eppure conosciuta, come quella del sogno.
La pittura è un vascello, che conduce ad un’isola sconosciuta che in realtà si trova dentro noi stessi. Noi, essendo, ci conosciamo, eppure sentiamo la necessità di partire, insieme a Palumbo, alla ricerca di noi stessi.
L’inconscio del pittore è la realtà avvolta dal velo del mistero: la luna, il cavallo, il deserto sono icone riconoscibili, ma la loro associazione ed il loro inserimento in un paesaggio transitorio fatto di quinte aperte, strutture in volo ed elementi che conducono in viaggio, suggeriscono nuove suggestioni derivanti da un poliedrico mondo fantastico, che ha suoi protagonisti e sue storie da raccontare, ma un’unica anima, che è necessità artistica.
Per Palumbo partire diviene allora, come il narrare per Sherazade, una questione di vita o di morte, un’esigenza di espressione che è salvezza, un’illusione magica e giocosa destinata a fronteggiare la barbarie quotidiana dell’esistenza, una visione che si può avere semplicemente chiudendo gli occhi e continuando a viaggiare in sogno verso noi stessi. In questa narrazione visiva, il colore e le linee possono stupire come le parole di una fiaba contemporanea, possono permettersi di deridere la realtà con fantasia e di evocare un mondo in cui gli archetipi cambiano significato, in cui persino il cavallo di Troia, da portatore di sventure diventa portatore di gioia come i cannoni di bronzo di un racconto di Rodari. Sembra di assistere al tentativo, da parte dell’artista di trovare una risposta al quesito proposto in prosa da Michael Ende, secondo cui “soltanto chi lascia il labirinto può essere felice ma soltanto chi è felice può uscirne”.