Lo stupore nei luoghi dell’infinito: l’arte di Cleofe Ferrari

“La stai guardando?” Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la sensazione di non stare dentro a niente. “È proprio fantastica”, ho detto”

Raymond Carver, Cattedrale

 

C’è stato un tempo in cui le Cattedrali erano parte integrante della vita degli uomini. Nella loro pianta si nascondeva e svelava il mistero delle relazioni tra l’uomo e l’universo, tra il terreno e il divino, tra il comprensibile e l’ignoto. La luce, entrando dalle vetrate, non si limitava a disegnare arabeschi su splendide pavimentazioni eseguite da maestranze specializzate, non era concepita unicamente come fenomeno fisico utilizzato a fini estetici o destinata a svolgere una mera funzione pratica. La luce naturale si faceva trascendente, diveniva manifestazione della natura divina, metafora di origine e resurrezione. Attraverso la struttura della Cattedrale, l’uomo compiva un vero e proprio viaggio dentro se stesso: entrando nella costruzione si lasciava alle spalle l’esterno e la realtà tangibile, per avvicinarsi maggiormente all’interno, al Sacro. La Cattedrale conduce verso l’interno e, per esteso, al cuore. Senza esitazioni, riconnette l’uomo con se stesso, ricordandogli le parole di Paolo di Tarso “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi (..)?”(1Cor 6,19-20 ). Ancora oggi, davanti alla sua facciata, lo sguardo si eleva e l’animo si fa piccolo davanti al Mistero. Allo sguardo attento di Cleofe Ferrari, tutto questo non è sfuggito. Nelle sue opere, la pittrice tenta di penetrare la cattedrale della sua essenza, unificandone l’interno e l’esterno attraverso l’utilizzo impressionista della luce che muta, da semplice espediente tecnico, in strumento simbolico per permettere all’uomo di incontrare l’infinito. Se è vero che i rimandi pittorici richiamano esperienze biografiche dell’artista, pure questi vengono reinterpretati attraverso un sentimento lirico che pare in grado di attraversare i secoli per ricongiungerci con il valore originario della struttura architettonica e, per esteso, con la nostra anima. Fare una profonda riflessione sul Duomo, d’altra parte, non può non condurre a un’inevitabile confronto con la natura e con una delle sue più significative manifestazioni: la montagna, luogo privilegiato in cui, da sempre, l’uomo tende a riconnettersi con un Infinito presente, percettibile attraverso i sensi  e lo spirito. L’elevazione fisica può trasformarsi in elevazione morale, se si alza lo sguardo verso l’interno della Cattedrale o si contempla una vetta che pare irraggiungibile quanto il Mistero. I paesaggi di Cleofe Ferrari, modulati da una sensibilità attenta attraverso un gesto sicuro, sono scenari dell’anima; quello che le interessa è mettere in luce i confini  del mistero attraverso contorni sfumati. Non c’è bisogno, sosteneva Carver in uno dei suoi racconti, di vedere una cattedrale per coglierne l’essenza: è sufficiente percepirla nel suo significato. Le montagne, gli edifici, i dettagli tratteggiati dalla pittrice sembrano rimandarci lo stesso messaggio. L’artista indaga l’incontro tra macrocosmo e microcosmo, tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo, tra ciò che conosciamo e ciò che ignoriamo. In punta di pennello, Cleofe Ferrari ci svela delicatamente la complessità della natura dell’uomo.

“La Natura è un tempio dove colonne vive
lasciano a volte uscire confuse parole;
l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari.

Come echi lunghi che da lontano si fondono
in una tenebrosa e profonda unità
vasta quanto la notte e quanto la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.”

Charles Baudelaire