AV 1943

È indubbio che, comunque si sia rappresentato, fin dalla sua prima apparizione il treno abbia esercitato un fascino magnetico per scrittori, artisti e viaggiatori casuali, divenendo a seconda della percezione dell’epoca o delle personali inclinazioni simbolo minaccioso di progresso inarrestabile, mezzo di relazione e trasporto privilegiato, oggetto di riflessione sul tempo che scorre, espediente immaginativo, metafora di vita. Se la prima tela a raffigurarlo, nel 1844, sembra metterne in risalto l’essenza, quasi come se Turner non ne concepisse davvero l’esistenza, affidata invece a pioggia, vapore e velocità, venti anni dopo sarebbe stato determinante per Daumier metterne a fuoco la funzione sociale, dipingendone con verismo intimista un vagone di terza classe. Per gli impressionisti il treno, le barche e le stazioni, forieri di possibilità di spostamento verso gli amati luoghi da dipingere divennero espedienti per innovativi e continui studi luministici. Inutile ricordare la seduzione esercitata sui futuristi dai mezzi di trasporto, e lo spazio da questi conquistato sulle tele di Severini, Boccioni, Depero, Pannaggi. La malia del treno non avrebbe lasciato immune neppure De Chirico, per cui il mezzo sarebbe assurto a muto testimone dell’eterno sfuggito alle maglie del presente, enigma passeggero eppure inesorabile portato dai suoi ricordi di bambino. Ad Angiolo Volpe, fine conoscitore della storia dell’arte, tutto questo è ben noto. Tuttavia, per questa mostra, l’artista livornese ha scelto di secretare la tradizione per dedicarsi a un figurativo monocromo intenso che racchiuda piuttosto echi surrealisti, realizzato al margine di un’esperienza del tutto soggettiva, densa di contenuti personali e allo stesso tempo drammaticamente universali, laddove il termine dramma assuma il significato intrinseco di azione, gesto destinato a esortare chi guarda a una profonda riflessione sul senso del mondo. Forse ci saremmo aspettati che Volpe affrontasse il tema del treno attraverso la delicata pittura storica che abbiamo imparato a conoscere e apprezzare. Forse avremmo potuto ingenuamente credere che avrebbe raccolto a piene mani l’eredità di De Nittis e ce l’avrebbe donata reinterpretata dalla sua acuta sensibilità. Ma, come consegnato alla memoria dal pittore pugliese, Passa il treno così come la vita, e noi non possiamo fare altro che inseguirlo con sguardo attonito, consegnando il nostro stupore al profondo senso lirico che contraddistingue lo stile di Angiolo Volpe che, in questa occasione, opera scelte formali diverse. Non si tratta di dipingere ciò che si osserva, ma ciò che si è. L’artista realizza un sapiente lavoro di espoliazione: eliminando ogni complessità affida a un gesto grafico essenziale e rigoroso il focus sull’oggetto-treno che diviene, inevitabilmente, forziere ferroso delle proprie memorie. Si dedica a una sincera introspezione, attraversando il tempo con incedere incalzante, incidendo, graffiando, logorando tavole di pioppo secondo una logica di intimo bisogno. La necessità di cesellare si fa anche fisica: in uno spazio pittorico che coincide con un tempo sospeso il bulino lavora insieme alla vite, la grafite ai polpastrelli consumati, la mente al cuore. Volpe lascia un segno attraverso il gesto incisorio, imprime il passato con energia diretta e primordiale. Tatto e tratto si sovrappongono facendo dell’opera il pittore e viceversa. Solo per questa volta l’artista abbandona il lavoro alla luce del giorno per poter incessantemente intervenire sulle tavole facenti parte di questo progetto: la tecnica non lo richiede, e l’animo deve colmare un’urgenza espressiva che nulla ha a che vedere con il virtuosismo pittorico. Il monocromo domina, mentre il colore riposa in forme aggraziate destinate a tramandare un effimero quanto perfetto presente. Graffi che ricordano ferite dell’anima si aprono e si chiudono per lasciar passare tra le lamiere e gli sbuffi una luce che è anche simbolica, in un continuo incontrarsi, dire addio, ritrovare, salire, scendere, partire e tornare. Ogni fermata è una storia, e capita che la si voglia sentir raccontare dalla voce viva del pittore. Avviene che ci si soffermi su di un’insegna pubblicitaria, su un fior di loto, su un’ombra o un graffito riprodotto, che ci dicono qualcosa di noi che ancora non sapevamo dirci. Accade infine che si ricordi che una delle funzioni dell’arte sia fare memoria: e si ha l’impressione che, come quelli di Fossati, i treni -e i vaporetti- di Volpe, di stazione in stazione, possano portar via ogni dolore. Il tempo, come l’acqua, sbiadisce, muove, confonde: le lancette possono perdersi insieme ai dettagli, ma i simboli di Volpe ricordano che il tempo e la bellezza hanno ancora una dimensione possibile, in cui possono essere salvati. In una stazione dismessa, un vecchio locomotore aspetta. Forse riposa, dopo aver affrontato strade scoscese, accolto viaggiatori, visitato paesi, vissuto una vita intera. Sul suo fronte, un numero, 1943. Poco distante, un monogramma, AV. Non è necessario importunare l’artista per comprendere l’identificazione con l’oggetto del suo fare, non occorre attenderne conferma, che arriva puntuale: “Il treno sono io”.

 

 

Francesca Bogliolo