Si sa, la testa è il luogo sacro in cui si nascondono i pensieri. Come sosteneva in un’intervista Mauro Mancia (psicologo e appassionato collezionista di cappelli) il genere umano deve aver sentito la necessità fin dai primordi di proteggere le proprie riflessioni dal caldo e dal freddo. Così nacque il cappello, elemento inseparabile per molti, capo d’abbigliamento dal valore estetico e sociale, che nella vita e nella storia dell’arte riveste un ruolo fondamentale. Dal Rinascimento a oggi il cappello non ha cessato di regalare suggestioni fantasiose e di essere utilizzato come elemento caratterizzante dagli artisti, che lo hanno celebrato e reso icona della loro poetica. Quando si guarda un copricapo, è impossibile pensare solo all’oggetto in quanto tale: esso è un veicolo straordinario di emozioni, immagini, personalità; un prezioso testimone, evocativo di un certo tipo di cultura. Sarebbe impensabile comprendere fino in fondo l’arte di Magritte, Tamara de Lempicka, Van Gogh, Modigliani o Beuys, per citarne solo alcuni, senza prendere in considerazione l’utilizzo del cappello come indicatore socio-culturale. Tuttavia, alle volte, capita che, come in moti casi nella vita, i dettagli significativi si perdano tra le banali vicende quotidiane, e si corra il rischio di non coglierne il valore. Per evitare che questo accada, Giacinto Bona ha ideato e realizzato la mostra Chapeaux, che, attraverso una riflessione fotografica sul cappello come elemento di costume, commemora centoventidue anni di tradizione familiare sottolineando la capacità degli accessori di convertire, indossando un solo oggetto, la realtà in dimensione ideale. La storia che Giacinto Bona rivela ha delle affinità con alcune parole del Piccolo Principe di Saint Exupery, che sosteneva che i grandi vedono solamente un cappello e non un elefante intero ingoiato da un boa. Giacinto ci racconta che chi ha perduto la forza dell’immaginazione può vedere in un cappello solamente un cappello, e non le storie che esso ha da raccontare. Può vedere una scatola elegante e polverosa contenere un oggetto che ormai si usa poco, e magari solo nelle grandi occasioni. Per questi adulti non è difficile scrivere la parola fine, perché non esiste neppure il “c’era una volta”. Tuttavia, il senso magico che secondo Mirò dobbiamo impegnarci a riscoprire nelle cose, pervade le atmosfere del negozio di Giacinto da un secolo, e lo avvolge come un profumo che rimanga attaccato a una sciarpa. I cappelli, tra le mani di Giacinto Bona, svestono i panni di oggetti e diventano storie, tante quante possono essere le persone che li portano. L’esperimento artistico, iniziato per caso pensando che un cappello dimenticato su uno scaffale sarebbe stato valorizzato facendolo indossare a un’amica, si è trasformato in un’esperienza relazionale, che ha coinvolto un gruppo di persone disposte a indossare panni di altri tempi o passati mai esistiti, in un esercizio immaginativo destinato ad attraversare il passato per proiettarsi una dimensione ideale. A differenza di Oscar Wilde, che sosteneva che “si può sempre capire dal cappello di una donna se vive o no di ricordi”, Giacinto Bona si chiede se le persone, grazie alla sola presenza di un cappello, possano immaginare di proiettarsi in un altro presente, che sia specchio delle molteplici personalità che risiedono in ognuno. Non resta che indossare il cappello come una maschera, e sentirsi liberi di essere se stessi: attori della propria vita, vera o immaginata che sia.